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LA LUNA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 gennaio 1980
 
di Bernardo Bertolucci, con Jill Clayburg, Matthey Barry (Italia, 1979)
 

Nel prologo al film, in quello chiamato in gergo pre-generico, sono contenuti i temi del film. Una terrazza sul mare, una luce abbagliante, dei colori vivissimi. Una madre porge ad un bimbo del miele, in un rapporto che indoviniamo subito di abnorme intimità e sensualità. Il bimbo, soffocato dal miele, tossisce: un affetto, anche quello materno, che se porto con eccesso arrischia, appunto, di soffocare. La madre: estroversa, sensuale, egocentrica. Il bambino già segnato dalle lacrime e dalla gelosia. E un padre, anonimo: una ombra che balla in controluce sullo sfondo del mare. La presenza della musica: degli accordi al pianoforte che accentuano l'iperrealismo visivo della scena. Infine, sottolineate con insistenza le indicazioni psicoanalitiche: la presenza del mare, gli echi dei vari liquidi amniotici e, soprattutto, il gomitolo di lana che il bimbo disfà mentre cerca di allontanarsi dalla scena: cordone ombelicale, filo d'Arianna che egli si trascina con sé. Il medesimo gomitolo, il medesimo movimento della cinepresa lo ritroviamo alla fine del film. Sottolineerà a quel momento la raggiunta maturità del protagonista.

Fra queste due immagini identiche, alcune settimane di un viaggio in Italia di un quindicenne americano che accompagna la madre cantante d'opera. Una madre che il ragazzo associa all'immagine della luna. Ed in queste brevi immagini, egualmente, mi sembrano. condensate le contraddizioni che segnano sempre di più, dopo un'opera illustrativamente impeccabile come IL CONFORMISTA , e un capolavoro struggente come ULTIMO TANGO A PARIGI il cinema di Bertolucci. Talento, Intuizione formale, coerenza tematica (la ricerca del padre, quella dell'identità e lo sdoppiamento della personalità) e anche ambizione, approssimazione che deriva forse da una seduzione eccessiva esercitata dal mezzo cinematografico.

Tutto questo si traduce nella splendida fotografia dai toni iperrealistici di Vincenzo Storaro che costellerà di gemme (fotografiche) tutto il film. Nella direzione d'attori che permetterà a Jill Clayburg, impegnata in un ruolo più che arduo, di uscire dignitosamente da situazioni a dir poco impossibili ed al non sempre gradevole Matthey Barry di rendere credibile la sua maturazione. Si traduce, anche, nell'insistenza con la quale Bertolucci segue il famoso gomitolo. Qui I casi sono due: o il regista prende per sciocchi gli spettatori, e si sofferma un'eternità per fare in modo che tutti abbiano capito il sottilissimo rinvio psicologico. Oppure si è innamorato della cinepresa.

Lo ammette anche lui, d'altra parte: "Se mi viene la voglia di fare una carrellata, lo la faccio". Liberissimo, naturalmente. Ma poi non deve meravigliarsi se i significati vanno a spasso. Perché cos'ha voluto fare, in definitiva, Bertolucci? Non un'analisi sociologica, non un film sulla droga, dice lui. Al che vien da rispondere: meno male. Poiché altrimenti non si potrebbe non definire criminale un modo cosi semplicistico di affrontare un problema del genere. Però, il film è costruito realisticamente. Si nota una volontà costante di inquadrare la realtà, uno sforzo di verità. Ed ecco allora una delle contraddizioni del film. Bertolucci dice: "Non ho voluto fare della psicologia, ma seguire un cammino sia melodrammatico che psicoanalitico,. Il primo per far reagire i personaggi in modo epico, il secondo per scavarli in profondità". In effetti, le pagine che si sposano al melodramma sono le migliori del film, direi le sole nelle quali si sente riescono a trascendere il semplice aneddoto. Sono Ie sequenze del Trovatore, con la cinepresa che si incunea dietro le quinte, un po' alla maniera di certi maestri americani della commedia musicale. Qui l'intento non è tanto di smitizzare, quanto di svelare l'artificio che sta dietro la creazione del Mito, raggiungendo una poesia dell'oggetto che è tra le cose più belle di LA LUNA.

Dove melodramma e aneddoto s'incontrano perfettamente, dandoci un'impressione di cosa avrebbe potuto essere il film di Bertolucci se si fosse limitato giudiziosamente nei suoi obiettivi, è nella conclusione alle Terme di Caracalla. Mentre la madre, sulla scena, interpreta il finale del Ballo in maschera, il figlio assiste non allo spettacolo della riconciliazione della famiglia (come interpretato moralisticamente da una parte della critica italiana), ma alla propria liberazione, alla propria possibilità di poter infine accedere alla età adulta, alla ritrovata identità. E qui questi elementi del racconto si fondono gloriosamente col melodramma che si svolge contemporaneamente sulla scena, quello "spazio privilegiato nel quale le passioni possono scoppiare e bruciare fino alla incandescenza senza per questo perdere in credibilità", per usare ancora le parole del regista.

Se la grazia sembra toccare la mano del regista quando egli immerge la sua storia nell'epico del melodramma, non altrettanto felice ci sembra quando, attraverso la strada psicanalitica, egli pretende di scavare nei suoi personaggi. Qui (e penso a sequenze come quella della fallita iniziazione amorosa al cinema, mentre si proietta NIAGARA con Marilyn Monroe; alla scoperta della madre del figlio che si droga, all'incontro con il procacciatore di droga, al viaggio a Parma alla ricerca del padre Verdi - per la protagonista -e del paesaggio giovanile - per Bertolucci - eccetera) le intenzioni ed i significati si sbriciolano, dando alla luce delle immagini che saranno anche stupendamente fotografate (l'incontro pasoliniano con Citti nel bar) ma che si disperdono impotentemente.

Forse Bertolucci, ed è un discorso che affonda le sue radici nel precedente NOVECENTO, pretende troppo dal proprio talento, dai mezzi che gli sono stati messi a disposizione, nel frastuono degli osanna, e delle critiche nel quale è immerso dai tempi di ULTIMO TANGO. Il suo discorso sul piacere della carrellata non è marginale: egli dà l'impressione di un artista che non vuol rinunciare a nulla, finendo col ritrovarsi con troppo poco. La fusione del melodramma con l'introversione psicologica, operazione che è riuscita in passato a certi maestri del cinema americano, richiede un rigore, una disciplina espressiva che oggi probabilmente Bertolucci non possiede. Troppo facilmente sedotto come si ritrova (si noti ancora Il desiderio di introdurre -come se già non ci fosse abbastanza carne sul fuoco - le scenette comiche per smussare gli eccessi emotivi) dal giocattolo- cinema, egli finisce col dare l'impressione come già in NOVECENTO, di un enorme goloso di temi, di espressioni, di emozioni. E da questa montagna di ambizione finisce col ricavare quel topolino che è certamente indegno del suo notevole talento.


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